Un mondo nuovo
Valerio Dehò
L’universo di Kazumasa è popolato di gente felice. Il suo è un mondo colorato e semplice. Tutto è in ordine o quasi, i colori accendono di felicità i personaggi, rivelano i fiori, la frutta, l’erba. Non si tratta di una vera e propria utopia artistica, né di un film di cui si conosca già il lieto fine, la sua è piuttosto una visione chiara e luminosa di un possibile stato dell’umanità. Senza retorica Kazumasa costruisce la gioia di una vita consapevole, ricca, spontanea e non soffocata dall’artificiale o dall’eccessivo. La filosofia dell’artista sta tutta in questa semplicità con cui non solo si può vedere il mondo, ma soprattutto costruirlo. Tutto appare perfino ingenuo eppure non lo è. L’artista ci dice che il mondo evidentemente non è così, non si tratta appunto di una rappresentazione, ma di un mondo che si popola di gesti semplici, di sensazioni elementari, di ricordi che vanno però ad accrescere il futuro, non certo a chiudersi nella memoria.
La stessa tecnica della terracotta colorata che Kazumasa si porta dietro dalla sua tradizione artistica giapponese, comunica il senso di un fare continuo che dà sostanza ai sogni e alle immagini di un mondo nuovo. Quello che viene posto in evidenza è che il rapporto tra l’uomo e la natura nasce insieme, non è una riscoperta o una necessità di ritorno. “Ragazzo albero” è un’opera paradigmatica di questa idea: il corpo umano diventa una specie di prolungamento della terra, la pelle si fa corteccia, niente è duplice, uomo e natura sono una cosa sola, indistinguibile. Ancora più esplicito il messaggio di “Tra l’acqua e il foco” in cui la figura umana reca il fuoco nella mano aperta mentre i piedi sono a contatto con l’elemento liquido che lo nutre. L’uomo-albero non solo segna l’asse terrestre e collega ciò che appartiene alla terra con gli strati superiori, ma la presenza dell’acqua apre al significato trarre di questa la linfa necessaria alla crescita. Tout se tient.
Infatti le sue sculture a grandezza naturale sono creature che ricordano quello che conosciamo, ma in effetti sono uomini che vivono una realtà diversa, attuale, toccata dalla mano dell’artista. La rigorosa semplicità di questo esseri diventa fondamentale, la naturalezza dei gesti, il colore che diventa forma attraverso una contrapposizione monocromatica, la presenza costante degli elementi naturali come l’acqua, il fuoco, i fiori, tutto concorre a creare un’atmosfera sospesa. Gli stessi gruppi di sculture come la famiglia o la “Danza della primavera”, “Amiche” o “Maternità”, appartengono ad una dimensione che richiama direttamente il Novecento, la classicità delle pose e degli atteggiamenti, sempre sorrette da volumi compiuti e definiti. Si mette in scena un teatro primario, un racconto simbolico da cui il naturalismo è bandito perché la storia viene spostata su di un piano metastorico. I suoi personaggi sembrano ombre colorate proiettate nella caverna platonica.
E’ anche affascinante assistere alla crescita di questo mondo nuovo che appare sotto i nostri occhi come se si trattasse di una visione generata dall’inconscio. In questo caso però l’arte di Kazumasa non va a sondare i meandri della psiche, ma il suo lavoro possiamo dire che attinga direttamente dagli archetipi, dalle figure primordiali, da quello che appartiene all’inconscio collettivo che comprende anche quello individuale.
La freschezza ed essenzialità delle sue sculture ha anche qualcosa di assolutamente lontano dall’attualità. Appartiene ad una classicità dell’arte che può fare a meno del tempo forse proprio perché gli appartiene completamente. Essere inattuali vuol dire esattamente vivere con tale intensità il tempo da dominarlo, non lasciandosene trascinare. Ma in questo modo si creano delle possibilità proprio di sopravvivenza al fluire temporale, delle isole in cui le immagini e le forme possono vivere per sempre. La velocità del tempo può essere vinta solo così, creando delle oasi in cui far crescere le utopie e lasciando che gli archetipi parlino di quell’eternità che l’arte conosce e che noi umani possiamo solo immaginare o vivere senza altre mediazioni.
Allora la partecipazione di un artista come Kazumasa al tema del food che ci coinvolge da alcuni anni e in particolare in questo anno dell’Expo, diventa interessante proprio per mettere a punto il particolare punto di vista dell’artista con una forma di attualità. Kazumasa essendo un essenzialista ha fatto sostituito il cibo con il più generico e basilare più nutrimento, qualcosa che non deve essere per forza elaborato culturalmente, ma che possa sempre rispondere alla sollecitazione di una semplicità fondamentale. Mangiare e nutrirsi non sono sempre la stessa cosa. L’idea dell’artista è stata quella di creare degli oggetti naturali, dei cibi, che appartengono al mondo fantastico come anche a quello della Natura. L’opera “I giorni della merla” è costituita da alcune mele da cui appare in rilievo un profilo d’uccello dalla levigatezza della superficie. Il binomio Mela/Merla diventa un terreno di incontro tra il mondo animale e quello vegetale, oltre che mettere in evidenza il calembour linguistico. “Settefichi” sono dei fichi colori in viola e arancione, colori complementari, che mostrano in un lato un volto femminile. La sessualità può essere nascosta anche in un frutto, come sappiamo da un’intera tradizione cristiana.
Ma bisogna sottolineare come il progetto che unisce le opere in mostra è fondato sulle relazioni del tutto naturali tra semi, i fiori e i frutti in una totale unitarietà. Nutrirsi vuol dire conoscere e collaborare con la natura. I fiori delle patate sono da questo punto di vista una sorpresa, perché risultano inattesi, la ruvida e scura patata diventa la generatrice di bellezza e di candore. Il legame dei processi che si sviluppano in agricoltura marca la differenza delle visione di Kazumasa da altre esperienze del genere. Il sole e, soprattutto la luna, sono importanti, non solo come alternanza sessuale universale, dualismo produttivo. “Il tempo della luna”, le fasi lunari, scandiscono i ritmi della semina, fioritura e della maturazione. Questa visione va in una direzione olistica e di rispetto verso il cibo a partire propria dal guardare all’agricoltura come ad un procedimento che ha in sé la sacralità della identità tra l’uomo e la vita.
Tutto si anima, si muove, anche se lentamente, come una chiocciola su di un grappolo d’uva. Le arance sorridono e un finocchio verdissimo diventa “Ciao” perché l’artista ha messo in evidenza la forma della verdura come se fosse una mano aperta in un saluto. “Bella paese” rappresenta dei pomodorini quasi fossero delle allegre luci natalizie, una catena di ortaggi coloratissima e simpatica, mentre il titolo richiama probabilmente al tricolore italiano, il Bel Paese appunto che anche in questo caso cambia genere, sessualità.
In genere questi lavori recenti rendono conto anche di una vena più libera, surreale, ironica dell’artista giapponese. Non che prima non ci fosse, ma questi ultimi lavori rivelano una giocosità più concentrata, pienamente espressa. Meravigliosa, in tutti i sensi, è una semi/anguria chiamata “H2O”, in cui un uccello beve come se si trattasse di un lago. Kazumasa ha dipinto con i toni verdi del frutto un vero planisfero, una carta geografica che è anche pelle, rivestimento. La terra diventa acqua, il paradosso, ma nemmeno tanto, sta nel fatto che non solo si mette in evidenza il mondo liquido da cui dipende la vita del pianeta, ma si gioca anche sul frutto come metafora della vita. Tutto è vitale e in trasformazione, la terracotta “Fiore del riso” magari ci rivela qualcosa della natura che non conosciamo però diventa emblematica di una filosofia di vita secondo cui bisogna cercare la bellezza nelle cose semplici o rischiamo di non accorgerci dello spettacolo di luce e colori che ci circonda. Questi lavori ce lo fanno comprendere.
Bologna, aprile 2015