Verrebbe da dire, guardando queste opere, che Kazumasa costruisca un paradiso terrestre. Ma Kazumasa è giapponese e probabilmente per lui il racconto del paradiso terrestre non significa un gran che. Forse bisognerebbe parlare della dea Amaterasu, che col suo amore crea l’universo. Ma qui siamo impreparati noi, e dobbiamo confessare che di Amaterasu non sappiamo molto. Facciamo così: guardiamo le opere senza fare troppa filosofia. Non è difficile, perché Kazumasa con la sua scultura così piena di grazia, cioè di luce e di incanto, costruisce un giardino di sogni. Prendiamo, ad esempio, il suo una dozzina di prati piccoli e sterminati in cui, centimetro dopo centimetro, zolla dopo zolla, si moltiplicano i fiori con le loro corolle profumate, strette l’una all’altra in modo da non lasciare il più piccolo spazio vuoto. E senza che ci sia un solo petalo strappato, sgualcito, appassito. Si tratta di fiori, direbbero i sapienti, attinomorfi, trimeri, tetraciclici, poliandri: diagrammi florali di ogni genere, insomma, tutti però regolari, ordinati, perfetti. Prendiamo, per fare un altro esempio, Il sole del giorno. Le corolle si aprono come ombrellini nel portaombrelli del prato, e si moltiplicano senza sosta. Sono fiori ma, nonostante la loro adolescente castità, sono anche grembi, vulve, organi sessuali capaci di generare. Non per niente gli scienziati hanno battezzato le loro singole parti con nomi allusivi: la manciata dei pistilli l’hanno chiamata “gineceo”, quella degli stami “androceo”, il punto dove la corolla si congiunge col gambo l’hanno definita “talamo”, che in greco significa letto nuziale. Kazumasa dunque restituisce lo spettacolo della natura in tutta la sua grazia, ma anche in tutta la sua potenziale fecondità, dando a ogni frammento un eco dell’infinito. A volte può ispirarsi a un firmamento trapunto di stelle (Notte con stella cadente, 1997); a volte può alludere a un esercito di gocce d’acqua (La pioggia, 1996); o, ancora, al moltiplicarsi dei raggi di sole (El sol, 1998); o, magari, a una famiglia di pesci che vanno a passeggio per le vie del mare (Raggio di sole sul mare, 1998). Quello che non cambia nelle sue sculture è il sentimento dell’ordine: preciso, anche quando è un ordine sparso; pacato, anche quando si applica a un proliferare di segni; ritmico, anche quando può sembrare statico; e, comunque, capace sempre di far riflettere sul significato più profondo della parola “ornamento”. “Ornare”, infatti, deriva etimologicamente da “ordinare”, e non c’è ornamento più bello che l’ordine delle parole e delle cose.
Kazumasa, allora, ordina, riordina, pettina gli elementi della natura. Elimina le ombre e le sproporzioni. Soprattutto elimina la violenza, la lotta per la vita, che nelle sue opere non compare mai. Fiori, pesci, farfalle si affollano in poco spazio, ma non si sognano di sgomitare, di spingere, di calpestarsi a vicenda. Guardiamo Diecidiagosto. E’ il giorno in cui si vedono le stelle cadenti, ma nel rettangolo della terracotta sono fioriti tanti convolvoli rossi. Certo, qualcuno si mette in mostra più degli altri, ma c’è posto per tutti nel museo del prato. Non c’è pericolo che qualcuno schiacci il vicino, lo denigri, lo annulli, come accade invece nel doloroso mondo della vita e nel malevolo ambiente dell’arte, dove la legge dominante è una sola: mors tua vita mea. Perché io esista, mi imponga, mi affermi, tu devi scomparire, possibilmente morire. Altrimenti come faccio a essere il primo, il migliore, l’unico? No, nell’universo di Kazumasa non c’è nessuna ambizione di primato: ci sono solo primi inter pares, come accadeva tra i re-pastori dell’antichità. Siamo giunti allora a una prima conclusione. Il mondo di Kazumasa si ispira alla natura, ma non è naturalistico. E’ inventato. E’ un universo mentale, in cui erbe e stelle conquistano un’insolita uguaglianza (è così il socialismo reale?) e in cui c’è giustizia finalmente, come si illudeva Renzo Tramaglino. Sarà per questo che, qui, donne, uomini, scoiattoli, lucciole, comete, farfalle, conchiglie, uccelli rossi, uova di Leda hanno l’aria di vivere felici. Sarà per questo che, qui, anche i calendari ridono. Nei giardini di Kazumasa il gioco sembra l’attività dominante: una Ragazza gioca coi fiori, a un’altra basta una lambretta fuori moda, anzi fuori tempo. Un soffio di colore muove l’aria, e intanto uomini e cani sono amici, un asino è incoronato a festa, e quando i boccioli si risvegliano un angelo corre a salutarli. Per costruire questo mondo incantato, dove non esiste il dolore, l’aggressività, la morte (forse solo un po’ di malinconia, ogni tanto: probabilmente rivolta a noi, che viviamo in modi e luoghi tanto diversi), Kazumasa ha trasformato la scultura in pittura. Le sue terrecotte, i suoi fogli di alluminio, i suoi bronzi dipinti hanno la leggerezza della carta. Sono come giochi di origami, senza peso, senza spessore. Quando li tocchi hai paura che si spezzino, tanto sembrano friabili, delicati, vulnerabili, anche se in realtà sono ben più forti di quanto appaiano.
Kazumasa, come tutti gli orientali, conosce la verità sapienziale di Lao-Tze: il debole vince. Non c’è forza se non nella debolezza. Un tifone potrà travolgere una portaerei, non il filo di gomma, che sopravvive anche alla tromba d’aria. Ecco, lo sapevamo, ci siamo cascati. Abbiamo finito per parlare di Oriente: parola magica e anche piena di significati, che però, applicata genericamente come si usa fare, e come abbiamo fatto anche noi, non vuol dire più niente. Anche perché l’universo di Kazumasa si radica, è vero, in un sentimento di poeticità, di evocazione della natura, di intelligenza della leggerezza tutto orientale, ma poi dialoga con esperienze occidentalissime, da Cragg a Boetti, da De Maria a Salvo.E non solo. Forse Kazumasa non ha mai sentito parlare di Licini. Eppure ne ha messo in pratica le parole. C’è una poesia di Licini che dice: “Un miracolo/dimmi una cosa che non sia/ un miracolo”. Anche nella scultura di Kazumasa, o forse dovremmo dire nella sua pittura scolpita; anche nella sua arte, insomma, c’è un continuo senso di miracolo. C’è nelle margherite bianche e azzurre, che sbocciano senza sosta; c’è nei principati dei convolvoli e nelle contee delle pratoline; c’è nel formicaio delle stelle di notte, nella giovane Eva che porta una mela senza peccato, nei gusci delle uova di Pasqua, che non racchiudono la sorpresa, ma sono loro stesse la sorpresa. Perché i miracoli della bellezza non si trovano nelle cose. Si trovano, quando si trovano, nello sguardo degli artisti.
It would come to mind, looking at this work, that Kazumasa is building a Garden of Eden. But Kazumasa is Japanese, so the tale of earthly paradise probably doesn’t mean much to him. Maybe it would be better to speak of the sun-goddess Amaterasu, who governed the universe with her love. But this would find us unprepared and we would have to confess that we do not know much about Amaterasu. Let’s do this: let’s look at his work without too much philosophizing. It’s not difficult, because Kazumasa, with his sculptures that are so full of grace, light and enchantment, is building a garden of dreams. Take his “Calendario” for example: a dozen small yet vast meadows, where flowers multiply centimeter after centimeter, turf after turf, with their scented corollas, tightly pressed together so as to not leave even the smallest space empty. And without even one petal ripped, blemished or wilted. These are flowers that botanists call actinomorphic, trimerous, tetradynamous and polyandrous. In brief, they are floral diagrams of all sorts, but all are ordered, even and perfect. Another example could be Il Sole del Giorno. The corollas open like small umbrellas in an umbrella-stand/meadow, ceaselessly multiplying. They are flowers, but despite their adolescent chasteness, they are also uteruses, vulvas and sexual organs that are ready to procreate. It is not without reason that scientists baptized their different parts with allusive names – the thimbleful of pistils is called “gynoecium”; the stamens are the “androecium”; the point where the corolla is joined to the stem is the “thalamus”, Greek for nuptial bed. So Kazumasa portrays nature’s spectacle in all its grace, but also in all its potential fecundity, lending an echo of infinity to each fragment. Sometimes he might be inspired by a star- studded sky (Notte con stella cadente, 1997). Other times he depicts an army of drops of water (La pioggia, 1996), the multiplication of the sun’s rays (El sol, 1998), or a family of fish going for a stroll along ocean paths (Raggio di sole sul mare, 1998). What does not change from sculpture to sculpture is the feeling of order – it is precise, even when the arrangement is sparse; it is calm, even when applied to a proliferation of different signs; it is rhythmic, even when it might seem static, and in all cases, it stimulates us to contemplate the deeper meaning of the word “ornament”. Indeed, etymologically, “to ornament” comes from “to arrange”, and no ornament is more beautiful than the arrangement of words and things.
Kazumasa arranges and rearranges, grooming all the elements of nature. He eliminates shadows and disproportions. He especially eliminates violence and the struggle for life, neither of which ever appear in his work. Flowers, fish and butterflies crowd into small spaces, but wouldn’t dream of elbowing, shoving or crushing each other underfoot. Let’s look at Diecidiagosto (10th of August). That’s the day of falling stars, but in this terracotta rectangle, we see a large number of flowering red convolvuluses. Of course a few of them are showier than others, but there is room for all in the museum of the grass. There is no risk of any of them trampling or denigrating or annihilating their neighbor like happens in the painful world of life and the malevolent art scene, where there is but one dominant law: mors tua vita mea. So that I can exist, impose myself and assert myself, you must disappear and possibly die. Otherwise how can I be the first, the best, the only one? No, in Kazumasa’s universe there is no aspiration to supremacy. There are only primi inter pares (“first among equals”), like there was with the ancient shepherd-kings. Now we have come to a first conclusion. Kazumasa’s world is inspired by nature, but is not naturalistic. It is invented. It is a mental universe, where grasses and stars acquire unusual equality (is that like social realism?) and where there is finally justice for all, as Renzo Tramaglino deluded himself in The Betrothed. This must be why the women, men, squirrels, fire-flies, comets, butterflies, shells, red birds and eggs of Leda seem to all live happily here. This must be why even the calendars are laughing. In Kazumasa’s gardens, play seems to be the main activity. In Una Ragazza Gioca coi Fiori, a girl is playing with flowers; in another piece, a girl is content with an obsolete (read: timeless) Lambretta. In Un Soffio di Colore Muove l’Aria, a whisper of color moves the air, and all throughout, men are friends with dogs, a donkey is festively crowned, and when buds awaken, an angel runs to greet them. In order to construct this enchanted world where pain, aggressiveness and death do not exist (maybe just a little melancholy from time to time, which is probably aimed at us, we who live in ways and places that are so different) Kazumasa has transformed sculpture into painting. His terracotta pieces, his aluminum sheets, his painted bronzes have the lightness of paper. They are like origami, without weight, without thickness. When you touch them you’re afraid they’ll break, because they seem so brittle, delicate and vulnerable, although they are really a lot stronger than they seem.
Kazumasa, like all Japanese people, knows of Lao-Tze’s sapiential truth: the weak prevail. There is no strength if not in weakness. A typhoon can destroy an aircraft carrier, but not a rubber band, which will even survive a tornado. There, it happened, we fell into the trap like we knew it would. We ended up talking about the Orient. A magic word, and full of meaning, but when used generically, as often happens, it no longer means anything. And that’s what we did. And it’s because Kazumasa’s universe is truly rooted in poetic sentiment, in the evocation of nature, in the Oriental intelligence of lightness. Yet it connects to extremely Occidental streams of thought, like those of Cragg, Boetti, De Maria and Salvo. And that’s not all. Kazumasa might have never heard of Licini. But he puts Licini’s words into practice. There’s a poem by Licini that goes: “A miracle / Tell me one thing that isn’t/ A miracle.” Also in Kazumasa’s sculpture, or maybe we should say his sculpted painting, his art, there is a continuous sense of miracle. It’s in the endlessly blooming white and blue daisies; it’s in the princedoms of convolvuluses and the earldoms of primroses; it’s in the swarms of night stars, in the young Eve holding an apple without sin, in the shells of Easter eggs that contain no little gifts, but are themselves the gift. Because the miracles of beauty are not found in things. They are found, when indeed they are found, in the eyes of artists.
Si tratta di fiori, direbbero i sapienti, attinomorfi, trimeri, tetraciclici, poliandri: diagrammi florali di ogni genere, insomma, tutti però regolari, ordinati, perfetti.